53 - Il figlio di Saul












Il figlio di Saul 
Roberto Manassero 

 Cosa si vede, si sente o si prova quando si vive nell’occhio del ciclone, quando si sta al centro della scena, sempre in movimento eppure immobili? Niente, non si prova niente. Il volto impassibile, il corpo rigido come l’ago puntato di un compasso, mentre tutto attorno il mondo ruota e travolge ogni cosa. La rappresentazione del campo di sterminio ne Il figlio di Saul, opera prima del trentottenne László Nemes, già collaboratore di Béla Tarr e autore di alcuni corti notevoli, è efficace e sconvolgente perché segue un doppio movimento che non offre punti di tregua allo sguardo: il movimento del centro, cioè del suo protagonista Saul Ausländer (un membro dei Sonderkommando al servizio dei soldati nazisti nella gestione pratica dei campi), colto sempre in campo, in primo piano e al centro di lunghi ed elaborati piani sequenza; e il movimento incessante, rumoroso, travolgente, al limite del sostenibile, di ciò che accade attorno a lui: l’orrore dello sterminio tenuto in profondità di campo, fuori fuoco, fuori campo, non visto ma sentito (si veda l’incredibile scena del reparto oggetti, in cui un intero ripiano ingombro di posate e suppellettili crolla fragorosamente), e rappresentato come un mondo a sé, un’alterità così scandalosa da essere concepibile solo con il filtro di una presenza umana. La presenza di Saul Ausländer. Come ha scritto Pietro Bianchi in uno dei suoi report da Cannes, dove il film è stato presentato in prima mondiale e ha vinto il Gran premio della giuria, «vedere cinematograficamente un campo di sterminio non può essere un’esperienza immediata, ma semmai può costruirsi solo tramite un processo di mediazione e costruzione che è sia formale sia intellettuale». Nell’inferno di un lager raccontato come una fabbrica a pieno regime, come una fornace o la cambusa di una nave; nella babele di lingue, provenienze, incomprensioni e disperazioni fra i suoi condannati; nel caos di compiti, ordini, esecuzioni, omicidi, pulizie, rivolte, fughe e rumori nei giorni convulsi della “soluzione finale”, Saul Ausländer è rappresentato come l’ultimo uomo sulla terra. La sua tenace ricerca di un rabbino che dia sepoltura al cadavere di un ragazzo nel quale egli crede di aver riconosciuto il figlio, è il segnale di una resistenza umana a una filiera della morte meccanica e spaventosa: un catena che porta dalla svestizione dei prigionieri alla camera gas, dallo sgombero dei cadaveri allo smaltimento delle loro ceneri nelle acque di un fiume, e che non può essere accettata dalla ragione. Saul si rivolta, come altri prigionieri nel corso del film (elemento che ricondurrebbe il campo di sterminio anche a quello di Sobibor, teatro di una rivolta il 14 ottobre 1943, poi raccontata da Claude Lanzman inSobibór, 14 octobre 1943, 16 heures, oltre che a quello di Auschwitz-Birkenau), ma di fronte alle due possibili forme di reazione tramandate dalla storia, quella armata e quella documentaria di fotografie e testimonianze scritte, Saul ne trova una terza: quella religiosa e spirituale. Deciso a perseguire a ogni modo il suo obiettivo, capace anche di rifiutare l’invito a unirsi alla rivolta, consapevole, come lo accusa uno dei suoi compagni, di occuparsi dei morti e disinteressarsi dei vivi, Saul vede nelle sepoltura del figlio quel senso ultimo, prima dell’accettazione della morte, che lo terrebbe in vita anche oltre la morte. La sua resistenza è contro la disumanizzazione portata dal campo di sterminio, e il paradosso il fatto che la sua tenacia lo porti in qualche modo ad accettare la quotidianità dell’orrore, in modo da superarla e sopravvivergli. Lo scrive anche Martin Amis nel suo straordinario La zona d’interesse, pubblicato qualche mese prima diIl figlio di Saul e arrivato in Italia per Einaudi lo scorso autunno. Uno dei protagonisti è Szmul, un Sonder, e nella sua presentazione al lettore Amis scrive così: «Quando era ancora tra noi, il mio amico filosofo Adama diceva sempre, Non abbiamo nemmeno la consolazione dell’innocenza. Non ero e non sono d’accordo. Ancora oggi, continuerei a dichiararmi non colpevole. Un eroe certo evaderebbe e racconterebbe tutto al mondo. Ma ho il sospetto che il mondo sappia già tutto da tempo. Come potrebbe non sapere, considerate le proporzioni. Ci sono tre motivi, o scuse, persistenti per continuare a vivere: primo, testimoniare, secondo, esigere vendetta mortale. Io testimonio; ma lo specchio magico non mi mostra un assassino. Non ancora»[1]. Saul Ausländer non è diverso da Szmul: è un testimone. Non un testimone oculare, come i prigionieri del campo che sotteranno fotografie e documenti (con il rimando, ancora una volta, all’impossibilità di vedere e documentare Auschwitz, ripensando in particolare a Immagini malgrado tutto di Didi-Huberman), ma un testimone di vita, un morto che dona al mondo che verrà non la sua memoria, non il suo sapere impudico, ma il desiderio di restare umano. L’anima umiliata ma non uccisa di Saul, i suoi occhi spenti, ottusi, imploranti non chiedono altro che di essere osservati e accolti. Il mondo sa già tutto da tempo, non può non sapere, «considerate le proporzioni». Ciò che Saul offre è ciò che il mondo non sa, e cioè che egli può sopravvivere all’orrore e lasciare a un bambino biondo e solo – non il figlio che ha creduto di trovare, un altro bambino, molto simile nelle fattezze al piccolo Ivan di Tarkovskij – il dono della testimonianza. Il dono di vita che, dall’orrore di Auschwitz, ha permesso all’occidente di sopravvivere a se stesso. Nemes usa uno stile evidente, insostenibile, forzato e assoluto, come pura e dolorosa operazione intellettuale. «Non semplicemente un film su un soggetto», come ha scritto la scrittrice Joyce Carol Oates in alcuni precisissimi tweet, «ma un film che coinvolge lo spettatore nella sua esperienza». Girato in pellicola, in formato 1.33:1, ambientato di notte, scuro, illuminato dalle luci dei fuochi, dei fari, dei lampi delle raffiche di mitra, Il figlio di Saul tiene fuori l’orrore dalle sue inquadrature ingombre e al tempo stesso gioca sull’idea di ingombro, di accumulo e ingolfamento sensoriale per costringere l’occhio e l’anima a non voltarsi e guardare o sentire altrove. Nella tragica contraddizione del comportamento di Saul, nella resistenza di un morto alla morte stessa, nell’immobilità del suo frenetico vagare, il film rivela tutta la potenza della sua riflessione sulla violenza come azione così naturale da essere intollerabile. Nemes costringe a guardare ciò che non può essere rappresentato, mette in scena la morte e al tempo stesso la sfoca, gira letteralmente due film, quello su Saul in primo piano e quello sul campo di sterminio sullo sfondo. Il vortice, e la solitudine di chi lo abita. E se il movimento circolare è incessante e non porta ad alcuna risoluzione, è un altro tipo di azione, uno scambio lineare di sguardi oltre l’inquadratura, tra il personaggio e lo spettatore, che spezza la catena di montaggio del campo di sterminio. Lo specchio magico di cui parla Amis, in un’incredibile quanto feconda relazione fra le due opere, fra Il figlio di Saul e La zona d’interesse, ritorna grazie allo sguardo di Saul, che osserva la morte negli occhi ma vive ancora per negarla, e così facendo chiede all’occhio di accettare la sua anima non ancora trasformata in deforme mostruosità. ________________________________________ [1] Martin Amis, La zona d’interesse, Einaudi, Torino 2015, p. 36 (trad. it. Maurizia Balmelli).
Il figlio di Saul 
Davide Turrini. 

Con buona pace di Spielberg e Benigni di Davide Turrini Il Fatto Quotidiano 25 gennaio 2016 Dopo il film di Lazslo Nemes non ci potrà più essere un altro film sui campi di sterminio. Grande registi oscurati da uno sconosciuto ungherese che faceva l'assistente di Bela Tarr. La macchina da presa va oltre il filmabile, cos'altro si potrà raccontare dopo per immagini su Auschwitz o Birkenau? Nulla. Non c’è più nessuna soglia fisica o simbolica da varcare, nessuna scritta Arbeit Macht Frei sotto cui passare, nessun campo lungo con sullo sfondo cinte murarie e filo spinato da osservare con terrore Più informazioni su: Auschwitz, Giornata della Memoria, Olocausto, Roberto Benigni,Shoah, Steven Spielberg Inutile girarci attorno. Dopo Il figlio di Saul non ci potranno più essere film sull’Olocausto. Con buona pace di Steven Spielberg,Roberto Benigni, Gillo Pontecorvo e Costa Gavras. Giusto per fare qualche nome che ha avuto l’ardire di avvicinarsi ad una materia che continua a pulsare di orrore e morte ancora 75 anni dopo. Avvicinarsi, appunto. Perché invece il regista unghereseLaszlo Nemes è andato oltre. Non c’è più nessuna soglia fisica o simbolica da varcare, nessuna scritta Arbeit Macht Frei sotto cui passare, nessun campo lungo con sullo sfondo cinte murarie e filo spinato da osservare con terrore. E ancora: non ci sono nemmeno esterni giorno con baracche di legno o gli interni notte delle camerate dei deportati piene di letti accatastati uno sull’altro. La macchina da presa di Nemes è semplicemente dentro lo sterminio, a un passo dai carrelli su cui vengono appoggiati i cadaveri degli ebrei gassati che vengono infilati dentro ai crematori. Lì, insistentemente, freneticamente, febbrilmente, senza un punto di fuga (si veda anche la scelta dello schermo in 4:3), con cataste di cadaveri che vengono sfiorati, intravisti, e altri cadaveri ulteriormente trascinati, fuori fuoco, poi di nuovo a fuoco. Nemmeno cinque minuti di film e da questa catasta sbuca un sopravvissuto, un ragazzino, il presunto ‘figlio di Saul’. Pochi istanti e anche questo corpo nudo, di sfuggita scorto come emaciato, rantolante, viene appoggiato su una panca per essere subito soffocato da un medico nazista. Fermiamoci un attimo qui. Il cinema e l’Olocausto. Il figlio di Saul e la rappresentazione del non filmabile. Chi potrà andare oltre questa soglia visiva e sonora? Nessuno. E soprattutto tutto ciò che è venuto prima sembra davvero poca cosa. Sarà stata una questione di pudore, un’idea di rispetto storico ed umano, ma una cinecamera non aveva mai stazionato lì dove staziona quella di Nemes. Pubblicità L’assistente alla regia diBela Tarr sul set deL’uomo di Londra li mette in fila tutti quei cineasti che hanno voluto e cercato di addolorarsi di fronte allo sterminio di massa più impressionante della storia per la sua metodicità, la sua organizzazione millimetrica, la sua coazione a ripetere per mesi ed anni. Sì perché dopo Il figlio di Saul nessuno ce la racconta più la storia del babbo che attraverso la comicità evita l’orrore al figlio. Non esiste più la sequenza (interminabile) di Benigni che ne La vita è bellatraduce dal tedesco le urla di un guardiano nazista e si profonde in una snervante spiegazione di un gioco al figlio. Dopo Il figlio di Saulsappiamo che questa roba qui è tutta menzogna, una via volontariamente farlocca per non mostrarci e spiegarci niente sui lager. Niente. Perché grazie a Nemes sappiamo invece definitivamente com’è andata, cosa volesse dire essere un Kapò o un Sonderkommando (i deportati addetti al funzionamento e alle pulizie dei crematori), cosa significasse ‘sopravvivere’ là dentro: senza mediazione, col fiato addosso dei moribondi, con le Luger che uccidono a ripetizione. Non esiste fiaba, non esiste poesia, non esiste alleggerimento. L’orrore oggi è stato rappresentato e si chiama Il figlio di Saul. Quando Jean-Luc Godard, anche se effettivamente lo disse e scrisse Jacques Rivette, criticava la (mini) carrellata di Pontecorvo in Kapò sul corpo fulminato di Emanuele Riva/Terese, rimasta impigliata nel filo elettrificato del lager, sostenendo che “la carrellata è una questione morale”, eravamo di fronte ancora all’ipotesi del ‘non detto’ esplicitamente e del ‘non mostrato’ direttamente come soluzione moralmente più rispettosa nel filmare il non rappresentabile. Oggi però le parole di Godard e Rivette sembrano diventate pesantissime e ragnatelose gabbie di pensiero per sfuggire alla verità. Non per rivalutare Kapò di Pontecorvo, ci mancherebbe, perché basterebbe soltanto riguardare la sequenza con il filo spinato alto venti centimetri in modo che deportati uomini e donne si parlino come tra vicini di casa, e riaffossarlo di nuovo. Come del resto la pomposa ricostruzione spielberghiana del lager che spettacolarizza con tanto di suspense la salvezza degli ‘ebrei di Schindler’. No, nessuno potrà più credere a queste versioni edulcorate e devianti dell’orrore. Dentro alle stanze insozzate di sangue rappreso, membra e corpi gassati, agli ‘schnell’ urlati come frustate, al moto perpetuo per sfuggire al fine vita magari inventandosi un obiettivo non direttamente riconducibile alla sopravvivenza personale, è solo qui che si mostra l’abiezione suprema dell’Olocausto. L’unica vera ed ultima testimonianza cinematografica per il Giorno della Memoria 2016, e per quelle a venire, sia Il figlio di Saul. Al resto, a tutto il resto, che c’è stato e ci sarà, anche alle vie lastricate dalle migliori intenzioni, non si potrà più credere.

Nessun commento:

Posta un commento