29 - Gli enti locali dicono addio al Patto di Stabilità nel 2016 (?!)

06 gennaio 2015










IFEL-Fondazione ANCI -  Italia Oggi

Per regioni ed enti locali, il 2016 sarà l'anno dell'addio al patto di Stabilità interno, che verrà sostituito dal pareggio di bilancio.
La modifica - una sorta di rivoluzione copernicana dopo oltre 20 anni di applicazione del patto - ha resistito anche al secondo e decisivo passaggio parlamentare del disegno di legge di Stabilità, essendo stata confermata dalla Camera con modesti ritocchi. Fra questi, spiccano lo svincolo dal benestare di Bruxelles dei 500 milioni di sconti previsti a favore delle spese per l'edilizia scolastica (nell'ambito dei quali è stato inoltre individuato un mini plafond da 20 milioni per interventi di bonifica ambientale, conseguenti ad attività minerarie) e l'introduzione di una corsia preferenziale nell'assegnazione delle deroghe da parte delle regioni a favore dei comuni con popolazione fi no a 1.000 abitanti e di quelli istituiti per fusione a partire dal 2011. In tal modo, peraltro, Montecitorio ha confermato che anche i mini enti e quelli che si sono accorpati saranno fin da subito pienamente assoggettati alle nuove regole. Per le amministrazioni interessate, si tratta di una perdita secca rispetto a quanto in precedenza previsto: finora, infatti, il patto è stato sempre applicato solo al di sopra del migliaio di residenti, mentre a chi ha intrapreso la strada della fusione era stata garantita un'esenzione quadriennale dai vincoli di finanza pubblica. Per addolcire la pillola, si è agito su due versanti: da un lato, è stato raddoppiato dal 20 al 40 per cento (fino a un massimale di 2 milioni) il contributo straordinario che per dieci anni viene erogato a chi si fonde e che viene commisurato ai trasferimenti erariali attribuiti nel 2010. Per garantire la copertura finanziaria, è stata anche confermata e resa permanente la destinazione a tal fi ne di una quota annua del fondo di solidarietà comunale pari a 30 milioni. Dall'altro lato, è stata inserita una norma ad hoc per precisare che gli enti che nel 2015 non sono assoggettati al patto continueranno a fare riferimento al più favorevole regime di limite alla spesa di personale previsti dal comma 562 della legge 296/2006, anziché al più restrittivo comma 557 relativo agli enti soggetti al patto. Per effetto di tale precisazione, le uscite per stipendi dovranno essere contenute entro il tetto della spesa 2008 (anziché della spesa media 2011-2013) ma soprattutto il personale cessato potrà essere integralmente sostituito secondo la regola del turnover per teste al 100%. A beneficiarne, oltre ai comuni nati per fusione e a quelli sotto i 1000 abitanti, anche le unioni, che incassano anche la conferma dei 30 milioni annui di dote aggiuntiva sempre a valere sul fondo di solidarietà. Al riguardo, non è però arrivata l'attesa sospensione degli obblighi di gestione associata, che potrebbe però trovare posto nel decreto «mille proroghe» in attesa dell'annunciata revisione organica della disciplina che regola la materia. Qualche buona notizia anche per gli enti di area vasta, che recuperano 95 milioni sul 2016 e 70 per gli anni prossimi fi no al 2020, più altri 100 per far fronte al pagamento degli stipendi del personale in attesa che venga completata la ricollocazione degli esuberi. Ma la situazione rimane critica, tanto che sono stati confermati anche per il 2016 tutti i meccanismi emergenziali già previsti per il 2015, a partire dal bilancio annuale. Infine, le regioni vedono salire di 600 milioni (1,3 a 1,9 miliardi) il contributo in conto riduzione del debito e da sette a dieci anni il periodo massimo per riassorbire i disavanzi pregressi, senza dimenticare i 900 milioni per tenere in piedi il bilancio della Sicilia e i 50 a favore della Valle d'Aosta.












05 gennaio 2016
Sabrina Iommi

La commissione Bilancio della Camera ha deliberato il raddoppio degli incentivi economici a favore dei processi di fusione tra comuni: sono ora il 40 per cento dei trasferimenti erariali ricevuti da ciascun ente nel 2010. Vincolare le erogazioni ai risultati per far decollare le aggregazioni.
Un lungo percorso di riforma
L’11 dicembre la commissione Bilancio della Camera ha deliberato il raddoppio degli incentivi economici a favore dei processi di fusione tra comuni, che passano così dal 20 al 40 per cento dei trasferimenti erariali ricevuti da ciascun ente nel 2010.
La notizia arriva del tutto in controtendenza rispetto a quanto accaduto finora sul tema delle gestioni associate obbligatorie per i piccoli comuni, che ha visto uno slittamento continuo del termine ultimo per l’adeguamento, ora posticipato al 1° gennaio 2016.
Se ripercorriamo i punti salienti dell’associazionismo comunale in Italia, si possono ricordare quattro fasi:
– anni Settanta: nascono i governi regionali e vengono elaborate (in qualche caso) le mappature delle associazioni intercomunali e delle zone socio-sanitarie;
– anni Novanta: la legge 142/90 introduce le fattispecie su cui oggi si continua a dibattere: unioni e fusioni;
– anni Duemila: la legge 265/1999 riforma gli strumenti associativi che hanno avuto poco successo (cade l’obbligatorietà della trasformazione delle unioni in fusioni, si introduce un corposo sistema di finanziamenti, si ribadisce il potere delle regioni nell’individuazione di bacini ottimali); la riforma costituzionale del 2001 e la legge sul federalismo fiscale (legge 42/2009) spingono sul decentramento;
– dal 2008: sono gli anni della crisi, in cui lo Stato recupera un ruolo centrale in materia di assetti locali per contenere la spesa pubblica.
Pochi risultati
Un bilancio dei risultati ottenuti è illustrato nel grafico 1. La legge 142/90 non ha dato quelli sperati, perché la prospettiva della fusione obbligatoria è stata osteggiata dagli enti locali. Diverso effetto sembra aver sortito la normativa che proprio quel vincolo ha rimosso (legge 265/99). Tuttavia, occorre tener presente che le soluzioni, lasciate allo spontaneismo dal basso, hanno inseguito di volta in volta i finanziamenti disponibili (nazionali e regionali), senza dar luogo a soluzioni stabili. Con la legislazione della crisi c’è stato un nuovo impulso alle unioni di comuni, ma il fenomeno è in parte il risultato della mera trasformazione delle preesistenti comunità montane, cui sono stati tagliati i finanziamenti.
A fine 2014, il bilancio è dunque molto magro: le unioni interessano il 24 per cento dei comuni e il 14 per cento della popolazione; quelle effettivamente operative, che cioè hanno presentato un bilancio, sono ancora meno (nel 2012, 230 a fronte delle 367 esistenti sulla carta) e comunque il loro peso sulla spesa complessiva degli enti locali resta inferiore all’1 per cento.
TABELLA

Dal 2014 è poi emerso per la prima volta il fenomeno delle fusioni. Come ha confermato anche recentemente la Corte dei conti (audizione parlamentare del 1° dicembre 2015), questa soluzione è da considerarsi la migliore rispetto alle altre forme di associazionismo, perché produce risparmi di spesa certi. I fattori che l’hanno finalmente avviata sono da individuarsi negli incentivi erogati, uniti all’esenzione dal rispetto del patto di stabilità e, soprattutto, dall’obbligo di gestione associata delle funzioni fondamentali. Gli incentivi sono di tutto rilievo per piccole realtà: un comune nato da una fusione di dimensione molto piccola, come Fabbriche di Vergemoli (Lucca) (800 abitanti dopo la fusione), riceve un contributo annuo pari 110mila euro, mentre un comune medio come Figline e Incisa (Firenze) (23mila abitanti) circa 1 milione di euro per anno. Il contributo è previsto per i dieci anni successivi alla fusione.
Se il fenomeno è senz’altro positivo, occorre tuttavia considerare che i numeri restano ancora molto piccoli (26 casi, per un totale di 62 comuni coinvolti nel 2014) e i risultati in termini dimensionali modesti (solo 7 casi su 26 hanno dato origine a enti con più di 10mila abitanti e solo 2 su 26 a enti con più di 20mila). Il rischio è che, se lasciato al più assoluto spontaneismo, il percorso si dimostri assai dispendioso in termini di tempo e risorse e che finisca per produrre risultati modesti.
Aumentare gli incentivi? 
Il potenziamento degli incentivi economici dedicati alla soluzione migliore (la fusione) può senz’altro rappresentare uno strumento efficace, che deve però essere bilanciato da una valutazione stringente dei risultati.
Ad esempio, gli incentivi potrebbero essere erogati solo per soluzioni di massa critica sufficiente. Per valutare questo secondo aspetto si può far ricorso al raggiungimento di una soglia demografica significativa (almeno 10mila abitanti), oppure alla corrispondenza ad alcuni ambiti ottimali ormai consolidati, come i sistemi locali del lavoro (che rispecchiano il comportamento reale degli individui) o gli ambiti di programmazione dei servizi socio-sanitari o educativi (ambiti che corrispondono più precisamente al concetto di servizi di prossimità).
Occorre, infine, prevedere un potere di sostituzione nel caso di inadempienza, giustificabile con motivi di interesse pubblico prevalente: l’iper-frammentazione, infatti, assorbendo risorse per il funzionamento delle strutture, 
toglie servizi ai cittadini.

SABRINA IOMMI

Ricercatrice presso IRPET (Istituto Regionale Programmazione Economica della Toscana) Si occupa di analisi territoriale e socio-demografica dello sviluppo, economia urbana, modelli istituzionali di governo.


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