16 - Due articoli sull'andamento dell'occupazione nel 2015

25 dicembre 2015
Questi tre articoli meritano di essere letti insieme perchè mi pare che racchiudano una chiave di lettura sugli ingressi nel mondo del lavoro molto interessante.
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LAVORO & PRECARI
Il 2015 dell’occupazione
Bruno Anastasia - Lavoce.info | 26 dicembre 2015

Le fonti ufficiali e amministrative convergono su alcuni punti per quanto riguarda la dinamica dell’occupazione nel 2015. Aumentano gli occupati, soprattutto nei servizi e nel lavoro dipendente. In calo i rapporti di collaborazione, mentre sono consistenti gli effetti della decontribuzione.
La dinamica dell’occupazione
Sulla dinamica dell’occupazione nel 2015 abbiamo ormai a disposizione numerose informazioni statistiche aggiornate al terzo trimestre o anche a ottobre. Alcune evidenze si possono cominciare a considerare acquisite: i due mesi che mancano alla fine dell’anno potrebbero determinare qualche correzione, ma non alterare i segni dei fenomeni. Dall’esame congiunto delle varie fonti ufficiali (Indagine sulle forze di lavoro Istat e dati di contabilità nazionale) e amministrative (Inps-Osservatorio sulla precarietà; ministero del Lavoro e network SeCo per le comunicazioni obbligatorie delle imprese ai centri per l’impiego) si può delineare il quadro che di seguito sintetizziamo.
Un punto sembra ormai certo e assodato: gli occupati complessivi sono aumentati. La variazione, comunque calcolata (occupati o unità di lavoro o posizioni lavorative), rispetto all’anno precedente si aggira sulle 200mila unità. Non si tratta di una dimensione tale da far scordare la dura riduzione imposta dalla crisi, né il ritmo del recupero è tale da assicurare sugli sviluppi futuri: ma è comunque una netta inversione di rotta.

Un secondo punto sul quale c’è convergenza è la caratterizzazione settoriale dell’incremento, che risulta sostanzialmente dovuto ai servizi, mentre per le costruzioni, pur rallentata, prevale ancora la tendenza riflessiva e il manifatturiero risulta, per ora, aver (solo) arrestato, dopo un lungo periodo, il processo continuo di ridimensionamento.
Un terzo elemento si può dare per assodato: la crescita si è prodotta nell’area del lavoro dipendente mentre l’insieme (eterogeneo) del lavoro indipendente è rimasto al palo.

Tipologie dei contratti
Questione controversa è invece l’apporto alla crescita delle diverse tipologie di contratti di lavoro. Dal punto di vista delle politiche del lavoro, l’anno è stato caratterizzato dall’attenzione agli effetti dell’esonero contributivo per le nuove assunzioni a tempo indeterminato, a partire da gennaio 2015, e dal primo impatto del Jobs act su diversi aspetti, in primis la revisione, in vigore da fine marzo, della normativa sui licenziamenti (contratto a tutele crescenti) e le restrizioni, attivate da giugno, per alcune forme di rapporto di lavoro parasubordinato (contratti a progetto, associazione in partecipazione).

Tutti questi elementi convergono, di fatto, nell’incentivare o comunque favorire le assunzioni con contratto a tempo indeterminato, riducendo il costo mensile per i primi tre anni e rendendo certo il costo di una risoluzione per licenziamento. È dunque logico che a questo aspetto si dedichi una particolare attenzione.
I dati amministrativi (Inps, ministero del Lavoro, network SeCo) hanno evidenziato il netto incremento sia del volume di nuove assunzioni a tempo indeterminato sia del volume di trasformazioni da tempo determinato a tempo indeterminato (tabella 1).


Nello stesso periodo, il volume delle assunzioni sia con contratti di apprendistato sia con contratti a tempo determinato è diminuito (Inps, primi dieci mesi del 2015) o modestamente aumentato su base annua (ottobre 2014-settembre 2015), parallelamente a un’analoga crescita delle cessazioni (regioni SeCo). Il maggior volume di assunzioni si riflette nelle variazioni dello stock dei rapporti di lavoro in essere: i grafici 1 e 2, pur scontando il diverso universo di osservazione territoriale e la diversa base settoriale (Inps non include agricoltura e settore pubblico), evidenziano che la dinamica finalmente positiva risulta chiaramente trainata dai contratti a tempo indeterminato. Tanto per Inps quanto per le regioni SeCo le posizioni di lavoro a termine risultano invece in flessione e lo stesso si registra per l’apprendistato. Aggiungiamo che i dati amministrativi attestano chiaramente pure la riduzione del ricorso sia ai rapporti di lavoro intermittente (come ormai accade dal 2012) sia ai rapporti di collaborazione (-20 per cento su base annua) mentre è cresciuto fortemente l’utilizzo dei voucher.


Nei dati Istat non emerge ancora nitidamente la crescita del tempo indeterminato: sembra anzi che l’incremento dei rapporti a termine sia più rilevante per spiegare la crescita occupazionale. Come peraltro si osserva nella tabella 2 le variazioni tendenziali degli occupati nella distribuzione tra occupati a termine e occupati a 



tempo indeterminato oscillano di mese in mese. E occorre sempre 
ricordare che stiamo parlando di variazioni in valori assoluti che sono sotto quella soglia di consistenza tale da poter essere accertata con sicurezza anche da un’indagine campionaria, come quella sulle forze di lavoro.






(1)   Lombardia, Piemonte, Veneto, Trentino Alto Adige, Marche, Campania, Umbria, Emilia Romagna

Effetti della decontribuzione
Del resto, se quest’anno i rapporti di lavoro a tempo indeterminato non fossero aumentati in termini di flusso e di conseguenza anche in termini di stock (è impensabile infatti immaginare una parallela e contestuale moria, con la riduzione delle durate dei tempi indeterminati alla stregua del somministrato o della maggioranza dei rapporti a termine) significherebbe che un incentivo triennale pari al 30 per cento del costo del lavoro non ha molto peso né appeal. Certificherebbe una conferma di non nuove teorie sul salario come variabile indipendente (dal suo costo). Così non è stato.

La decontribuzione – che, basandoci sui dati Inps, possiamo stimare a fine anno supererà agevolmente il milione (tra nuovi rapporti a tempo indeterminato e trasformazioni) – ha avuto effetti consistenti e consegna al 2016 un trascinamento occupazionale positivo: una fiammata di assunzioni a tempo indeterminato ha effetti indubbiamente più duraturi di una analoga dovuta ai rapporti a termine, come accaduto nel 2014 con il decreto Poletti.


*Bruno Anastasia dirige l’Osservatorio sul mercato del lavoro regionale di Veneto Lavoro, ente strumentale della Regione Veneto. Dal 1994 al 2001 è stato presidente del Coses di Venezia e dal 2001 al 2006 presidente dell’Ires Veneto. Ha insegnato Economia del lavoro all’Università di Trieste, Corso di laurea in Scienze della Formazione. Dal 2000 al 2006 ha collaborato con il Gruppo nazionale di monitoraggio delle politiche del lavoro istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Dal 2007 al 2009 ha collaborato all’attività della Commissione di Indagine sul lavoro di iniziativa interistituzionale Cnel-Camera dei Deputati-Senato (Commissione Carniti).



Voucher, il lavoro ai saldi di fine stagione
di Area pro labour | 23 dicembre 2015

di Stefania Mangione*

Nato con le finalità di riemersione del lavoro irregolare in ambiti in cui risultava diffuso (e comunque, a committenza familiare e non imprenditoriale) e di inclusione di alcuni soggetti considerati più deboli, il lavoro tramite voucher o lavoro accessorio, è diventato l’ultima frontiera del lavoro precario nell’impresa.
Il lavoro accessorio viene introdotto nel 2003 con la cosiddettalegge Biagi (artt. 70 e ss. del decreto legislativo 276/2003), riformato dalla legge Fornero e nuovamente ritoccato dal decreto legislativo 81/2015 del governo Renzi.
La legge Biagi lo ammetteva, per la prima volta nel nostro ordinamento, con due limiti, uno oggettivo e uno soggettivo: le prestazioni accessorie erano tipizzate (piccoli lavori domestici e di giardinaggio, insegnamento privato supplementare, babysitting, ecc.) e poteva essere reso da determinate categorie di lavoratori (disoccupati da oltre un anno, studenti, pensionati, disabili, ecc.) a favore di committenti familiari o enti senza scopo di lucro, con esclusione degli imprenditori. Vi era poi un ulteriore requisito rappresentato dall’occasionalità: le prestazioni di lavoro accessorio potevano essere rese per non più di 30 giorni nel corso dell’anno solare e, in ogni caso, entro il limite complessivo di 3 mila euro.
Il vero cambiamento si ha con la riforma Fornero: scompaiono le limitazioni soggettive e oggettive e viene ammessa la possibilità anche per gli imprenditori (e per le pubbliche amministrazioni) di utilizzare i voucher, per tutte le attività lavorative e in tutti i settori produttivi. L’unico limite è quello del compenso che non può superare i 5 mila euro, considerando la totalità di committenti, e i 2 mila euro con riferimento al singolo committente.
Anche il governo Renzi decide di intervenire sull’istituto: la legge delega 183/2014 (ovvero quel progetto di riforma del mondo del lavoro detto Jobs act) prevedeva, tra le molte cose, anche la “possibilità di estendere..il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio per le attività lavorative discontinue e occasionali nei diversi settori produttivi” (art. 1, comma 7, lett. h, l. 183/2014). Quella delega si è poi tradotta negli artt. da 48 a 51 del decreto legislativo 81/2015 (sul riordino delle tipologie contrattuali). L’intervento del governo si colloca nel solco della riforma Fornero, liberalizzando ulteriormente questo strumento: scompare il riferimento alle attività lavorative discontinue e occasionali contenuto nella legge delega; viene innalzato il limite dei compensi che da 5 mila euro passa a 7 mila con riferimento alla totalità dei committenti, mentre rimane fermo il limite di 2 mila euro in favore di ciascun committente imprenditore.
Viene confermata la possibilità anche per la pubblica amministrazione di utilizzare i voucher e introdotto un unico divieto, relativo all’utilizzo di prestazioni di lavoro accessorio nell’esecuzione di appalti, fatte salve non meglio precisate ipotesi che
Vi è poi un ultimo aspetto, non secondario. Il valore nominale del buono lavoro è fissato per legge in 10 euro; detratto il compenso del concessionario che vende il buono, i versamenti alla gestione separata dell’Inps e all’Inail, la retribuzione oraria del lavoratore utilizzato coi voucher è di 7,50 euro: per tutti i lavoratori e per tutti i lavori, senza alcuna distinzione rispetto alla qualità del lavoro svolto, come invece espressamente richiede l’art. 36 della Costituzione. Detto in altri termini, oggi, un’ora di lavoro impiegata per togliere le erbacce da un giardino è remunerata quanto quella utilizzata per fare un innesto in un vitigno di Brunello di Montalcino.
Eppure, gli imprenditori di strumenti ne avevano già sin troppi: lungi dal ridurre le tipologie contrattuali flessibili, il decreto legislativo ha confermato e liberalizzato la quasi totalità dei vecchi istituti introdotti con la riforma che rese il mercato del lavoro italiano “il più flessibile d’Europa” (la legge Biagi), mentre tra il 2012 e il 2015 il supermercato delle tipologie contrattuali è stato suggellato da quest’ultima, appetibile offerta.
Più grave sembra essere il capovolgimento della funzione strategica del lavoro accessorio: se, in principio – pur con tutti i suoi limiti – poteva effettivamente fare emergere alcune attività spesso rese in regime di assoluta irregolarità, la sua odierna configurazione rischia di risolversi nel suo contrario: una copertura o legittimazione ex post del lavoro nero, abusivo e irregolare.
* Sono avvocata giuslavorista a Bologna, per i lavoratori. Ho scritto, assieme ad Alberto Piccinini, un libro in materia di comportamento antisindacale e faccio parte della redazione regionale Emilia – Romagna della rivista RGL news.




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